domenica 7 novembre 2010

RECENSIONE di Guglielmo Colombero

Intellettuali e gerarchi fascisti anomali: un saggio postumo di Francesco Grisi rivolto ai loro aspetti più trasgressivi

Un’irriverente sfilata di biografie controcorrente
Solfanelli pubblica le figure chiave del Ventennio


di Guglielmo Colombero

«Al centro di ogni biografia», scriveva Francesco Grisi nella premessa al suo Fascisti eretici (Solfanelli, collana il Calamo e la Ferula, 2009, pp. 154, € 10,00), «c’è sempre una serie di interrogativi. Perché fu fascista?». Francesco Grisi, pittore, scrittore e saggista nato a Vittorio Veneto nel 1927, scomparso nel 1999, alle soglie del nuovo millennio, ci lascia tre romanzi (A futura memoria, Newton Compton, 1986; Maria e il vecchio, 1991, e La poltrona del Tevere, 1993, entrambi editi da Rusconi) e numerosi saggi (La penna e la clessidra, Volpe, 1980; Il mantello di Faust, Pellegrini, 1981; La chiave d’argento, Pellegrini, 1984; Gli applausi dureranno nei secoli, Ila Palma, 1991; In nome di Dio, non bruciate le lettere, Serarcangeli, 1991; Il diario di Ponzio Pilato, Solfanelli, 1993; Giuseppe Mazzini, Rusconi, 1995).
Solitario, indipendente, trasgressivo e anticonformista: Grisi era, insomma, un impenitente, geniale e scomodo seccatore. Fondatore (nel 1970) e segretario fino alla morte del Sindacato libero scrittori italiani, pitagorico moderno, Grisi, che era nato da genitori calabresi, considerava il Mito come un Eterno Presente e sapeva rivestirlo di raffinate suggestioni letterarie: «A Crotone», scriveva nel suo Il diario di Ponzio Pilato, «ho visto donne dagli occhi neri come le olive di Cutro. Anche la moglie di Pilato, Claudia, è una donna del mare. Potrebbe somigliare a una donna di Crotone. Occhi splendenti nell’ombra. Odorosa di mirra. Macerata nei fiori d’arancio. Abbronzata dal sole caldo dello Ionio».
Fascisti eretici contiene 25 brevi e lapidarie biografie. Lo stile è quello eclettico e fulminante del pamphlet filosofico-politico: poche e scarne informazioni ma spesso irriverenti e corrosive. Ritratti che, con poche pennellate, ci restituiscono il senso (o il nonsenso) di un’epoca, quella del Ventennio fascista.

Una mordace galleria di ritratti
Il primo della lista è Filippo Anfuso, ambasciatore fascista a Berlino durante il truce biennio della Repubblica sociale di Mussolini: Grisi lo definisce «un’intelligenza che calcola e che non si lascia prendere dalla passione». Non bisogna infatti dimenticare che Anfuso aiutò molti dei soldati italiani deportati nei campi di concentramento tedeschi a rientrare in patria, e protesse persino alcuni ebrei fascisti italiani, come emerge dagli atti del processo celebrato in Israele contro Adolf Eichmann nel 1961. Segue Italo Balbo: rivoluzionario, violento, squadrista, assassino (la mortale aggressione contro don Minzoni fu opera sua), per ironia della sorte abbattuto dalla contraerea italiana in Libia nel 1940. Ma neppure lui del tutto allineato: pare che fosse ostile alla politica antisemita.
Nicola Bombacci: giustiziato insieme agli altri gerarchi dopo il 25 aprile, ex comunista espulso dal partito, che poi si avvicinò progressivamente al regime divenendo, durante la Rsi, il principale esponente dell'ala socialisteggiante. Giuseppe Bottai, uno dei cospiratori del 25 luglio, è un «autentico intellettuale con le angosce, i dubbi, gli umori culturali, le speranze di liberare la stessa Italia dalla retorica che alcuni fascisti avevano instaurato nel paese».

Titani del pensiero, cialtroni, fustigatori dei costumi e dissacratori
Ed eccoci al Vate, Gabriele D’Annunzio: Grisi ne mette in risalto la «tecnica soltanto apparentemente frettolosa e improvvisata», la «fantasia eccitata» che «fa giungere la poesia ai limiti dell’illusione». Per cui egli assurge a «rappresentazione fantastica, violenta, appassionata. Non lascia respiro in un tempo in crisi […] È il sentimento di un’arte traumatica legata al segno e al simbolo». D’Annunzio, conclude Grisi, è un «fascista eretico e rivoluzionario», che «reagisce al Romanticismo perché testimonia un’epoca inquieta». Dopo D’Annunzio, un altro intellettuale nero, anzi nerissimo, Julius Evola: «dadaista, orientalista, nichilista, “razzista”, eretico, fascista, demoniaco, trasgressore». Un enigma irrisolto, al quale infatti Grisi dedica due pagine scarse, forse anche lui intimidito… Altrettanto problematica la riflessione su Giovanni Gentile, vittima di un attentato partigiano a causa della sua adesione alla Rsi. Come definirlo eretico, quindi, se fu fedele a Mussolini fino al baratro finale? Perché, secondo Grisi, Gentile considera il fascismo «tragedia di una speranza delusa a causa della cristallizzazione in regime». Sul versante opposto, in qualità di eminenza grigia del 25 luglio, si colloca Dino Grandi: spregiudicato, ambizioso, politico di talento, che rifiuta «le mortificazioni della disciplina interpretata dal luccichio dei galloni».
Ironia, spirito polemico e anticonformismo, nella «moralità dell’anarchia che si collega alla libertà» li ritroviamo in Leo Longanesi: «uno di quei rari uomini che rimangono sempre all’opposizione in tutti i regimi», una specie di «Socrate anarchico». Uno che temerariamente scrive sempre la parola “fascismo” con la f minuscola e che, con chirurgico distacco, suddivide il movimento di Mussolini in quattro componenti: i facinorosi, gli operai crumiri, i borghesi senza pace e gli studenti. Lo stesso temperamento insofferente che ritroviamo in Mino Maccari, «guastafeste in ogni regime» dalla lingua affilata come un rasoio, che nel 1929 disinvoltamente intervista senza censure i confinati di regime a Lipari. Ed eccoci a Curzio Malaparte, successivamente autore di uno dei romanzi più ribaldi e crudeli degli anni Cinquanta (La pelle), che punta a proporsi come il Machiavelli del XX secolo scrivendo, a soli 33 anni, Technique du coup d’état, e che architetta «una satira carica di umori, piena di sangue tumefatto, in una altalena di incertezze, di ambiguità, di ipocrisia, di parole sussurrate, di giustificazioni che accusano». Marcello Mastroianni lo fece rivivere magistralmente nel film di Liliana Cavani La pelle, datato 1981, donandogli la sua maschera sarcastica e mordace.

L’empireo fascista: i Futuristi, le Maschere Nude, la Paideuma
Sicuramente la triade formata da Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Pirandello ed Ezra Pound può costituire oggetto di esecrazione o di ammirazione. Ma è impossibile ignorarla. Fascisti tutti e tre, ciascuno a modo proprio. Marinetti, padre del Futurismo, che, partecipando a ben quattro guerre del XX secolo, (Libia, Prima Guerra Mondiale, Etiopia, Seconda Guerra Mondiale) «le aveva raccontate con il tentativo sonoro di far ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici». Un tratto di strada, quello futurista, che percorre con lui Giovanni Papini, un «cattolico che trova nel fascismo la continuità della tradizione». Più complesse le motivazioni di Luigi Pirandello, la cui adesione al regime è spiegata da Grisi come un collocarsi «in quel fascismo della filosofia attualistica che è una delle componenti della dottrina fascista, e che ebbe figli e figliastri». In altre parole: Pirandello, spezzando una lancia in favore di Mussolini nel momento in cui sta per essere travolto dallo scalpore suscitato dal delitto Matteotti, «vuole andare controcorrente e indicare la sua preferenza verso chi sta per soccombere». Ulteriori complicazioni sorgono riguardo al poeta statunitense Ezra Pound, internato, dopo la guerra, per oltre un decennio in un manicomio criminale a causa della sua adesione all’ideologia nazista; in nome della Paideuma (l’esigenza di rinnovamento), Pound elabora la sua concezione dell’Occidente depurato da plutocrazia e moralismo, e, sulle orme di Nietzsche, esprime nei suoi Cantos una profezia temeraria e imprudente del fascismo.

Scettici e utopici: dal disincanto di Prezzolini all’etica di Del Noce
La parte finale del saggio di Grisi si sofferma su alcuni intellettuali che hanno lasciato una traccia profonda: Giuseppe Prezzolini, «straniero in patria e italiano all’estero», che si pone come «conservatore che rischia sull’avvenire». Ma anche l’implacabile polemista che divide gli italiani tra furbi e fessi, e che, machiavellico, intuisce che in Italia la destra è più rivoluzionaria della sinistra. E poi Berto Ricci, caduto in Africa nel 1941, singolare figura di fascista anarchico, movimentista e passionale, che tentava di leggere la Storia dal punto di vista delle minoranze. Unica figura femminile di questa rassegna, fortemente atipica in quanto «ebrea fascista», la scrittrice Margherita Sarfatti (che fu una delle tante amanti di Mussolini, e subì nel 1918 il trauma della morte di un figlio in guerra), autrice di una biografia del Duce pubblicata in Usa e nel Regno Unito nel 1925, e in Giappone nel 1938 (dove vendette 300 mila copie): il suo era un fascismo «etico», e quindi fatalmente irrealizzato. Di Mario Sironi, pittore e giornalista, Grisi scrive che il suo fu un «fascismo vissuto da intellettuale»: spaventato dalla civiltà industriale e consumista in cui intravede per l’uomo un futuro alienante di solitudine e di paura (un profeta della globalizzazione?). E di Ardengo Soffici, invece, sottolinea la visione del fascismo come condizione morale e psicologica, più che politica, del popolo italiano. Mentre per Ugo Spirito adotta la definizione di «fascista di sinistra», del tutto refrattario ai Patti Lateranensi. Anche lo storico Gioacchino Volpe, insofferente verso le leggi razziali, secondo Grisi vede il fascismo come «interprete dell’idea di nazione», ma tiene le distanze dagli aspetti che non condivide. E uguale autonomia di pensiero dimostra Luigi Volpicelli, fautore di un fascismo come «idea della libertà-dovere inscindibile dalla responsabilità della persona». Per concludere, un profilo di Augusto Del Noce: scrive Grisi che «non è stato un profeta, faceva i calcoli con la Storia. Aveva previsto la fine del comunismo oltre cortina. Ma era anche molto preoccupato per il crepuscolo dell’Occidente indorato dal nichilismo. È stato fortunato. È morto con i suoi fantasmi e ha visto cadere l’arroganza del comunismo».
La provocazione intellettuale più stimolante che racchiude questo saggio lucido e sfaccettato come un diamante, è il ritratto di Benito Mussolini in chiusura: «Immaginiamo che Benito Mussolini non sia stato un uomo politico e che non sia stato Capo del Governo per oltre venti anni […] Che cosa potremo ricordare?», ipotizza Grisi, e prosegue: «Lo stile era teatrale. Non c’era il dialogo scenico aperto con la divisione delle parti. E non c’era il monologo interiore che, in fondo, è la maniera più raffinata per fare teatro sino ai confini della psicanalisi». A noi potrebbe quasi ricordare qualcuno che, recentemente, ha vinto le elezioni in Italia. A voi no?

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno VI, n.59, novembre 2010)

http://www.bottegaeditoriale.it/larecensione.asp?id=70

mercoledì 29 settembre 2010

Il fascismo, eresia del Novecento (Piero Vassallo)

La definizione dell'inimitabile stile di Francesco Grisi passa per l'obbligata cruna di un'immagine anomala: la calma dolcezza del paesaggio tuderte, narrata dall'autore di un telegramma scritto con la velocità incendiaria e urgente del futurismo.
Il doppio cuore di Grisi, infatti, pulsava velocemente ma in sintonia con la quiete che avvolge Todi, sua città d'elezione. E nella pulsazione poetica l'incalzante frenesia futurista indossava l'habitus serafico del paesaggio per eccellenza italiano.
Da Marinetti Grisi aveva ereditato l'allergia alle ceneri del passato. Da Luigi Volpicelli, la consapevolezza che “il passato non è solamente una memoria storica o un richiamo nostalgico ma un porto sicuro, dal quale navigare per l'avvenire”.
Le pagine elettriche e inaudite di Grisi, di conseguenza, corrono sapientemente in mezzo alle due alte sfere del grande secolo italiano, lo scisma moderno – il fascismo multiforme e fosforescente – e la affratellante fedeltà alla storia cattolica.
Nel 1994, mentre gli eredi, designati dal voto degli irriducibili, si radunavano nel trivio dell'opportunismo per scialacquare e gettare al vento delle illusioni il patrimonio fascista, Grisi scriveva uno straordinario, innovativo elogio della geniale , erasmiana follia di Benito Mussolini.
Grisi ha scritto il libro d'oro, la perfetta apologia dell'eresiarca fascista e dei suoi continuatori. Il più audace e affascinante fra i tanti (troppi) libri sul fascismo, pubblicati negli anni del post-fascismo e dell'antifascismo.
Solamente la follia spirituale del poeta Grisi poteva concepire un saggio fosforescente e ruggente come “Fascisti eretici”. Testamento di un eresiarca, il libro è ora riproposto da Marco Solfanelli, editore d'avanguardia, impegnato senza tregua nel riscatto dei talenti italiani censurati o sottovalutati dai poteri della stupidità, imperversante da sinistra a destra e da destra a sinistra.
Grisi scelse la collocazione fascista, accettando di pagare l'esoso prezzo della scomodità. Il suo straordinario ingegno e il suo naturale anticonformismo potevano trovare il successo in qualunque punto cardinale della scena letteraria. Scelse la parte più difficile e penalizzante. Scelse l'insuccesso e navigò controcorrente, nelle acque sporcate dal pubblico disprezzo e dall'incomprensione privata.
La cultura al potere lo seppellì nel silenzio stizzoso, l'opposizione fascista (fatte le lodevoli ma rare eccezioni di Pierfranco Bruni, Tommaso Romano e Franz Maria D'Asaro) non lo comprese e non lo apprezzò come meritava.
A dieci anni dalla morte del temerario scrittore calabrese di Todi, la rilettura della sua opera saettante e paradossale apre porte segrete sugli inediti orizzonti del fascismo strutturalmente eretico. Rivela la verità censurata, scopre un popolo di impavidi fascisti, in cammino sulle vie dell'impresa a futura memoria.
L'acuta sensibilità dello spericolato Grisi ha osare addirittura il coinvolgimento di Benito Mussolini nella narrazione del fascismo come auto-eresia, dissenso ispirato e sollecitato dal sommo inventore del senso – della disciplina eroica che ha agitato la vicenda del secolo breve.
Mussolini, scrittore d'avanguardia e interprete della complessità italiana: “Vi è una storia segreta carica di sacrifici, di illusioni, di entusiasmi e di speranze. Gli ideali sono le radici di questa storia segreta vissuta intensamente da uomini che su diverse frontiere soffrirono e credettero”
Eresia fascista e tradizione cattolica avanzarono unite verso il raggiante crepuscolo dell'autobiografia futurista, il poema aereo, che il quasi morente Filippo Tommaso Marinetti dedicò a Gesù, eroico signore dei cieli. E vanno incontro alle ultime parole del fascista Grisi, “Dio è amore e il mio io morente, sta aspettando l'amore”.

Il vivamente consigliato libro di Francesco Grisi, 156 pagine, euro dieci, può essere richiesto all'editore Solfanelli, in Chieti.

Piero Vassallo



Francesco Grisi
FASCISTI ERETICI
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-54-6]
Pagg. 160 - € 10,00

http://www.edizionisolfanelli.it/fascistieretici.htm

domenica 7 marzo 2010

RECENSIONE di Marco Iacona (Linea 06/03/2010)

Al termine di questo volume uscito da pochi mesi per Solfanelli, dedicato ad alcune biografie di “Fascisti eretici” (questo è il titolo), Francesco Grisi docente, artista e scrittore scomparso più di dieci anni fa a settant’anni, confessa uno dei peccati capitali dell’intellettuale – probabilmente d’ogni tempo – e lo fa col suo stile apparentemente veloce, colto e discorsivo a un tempo che impegna il lettore a selezionare immagini nascoste nei periodi brevi ma ricchi. «Il conformismo è un male oscuro degli intellettuali» scrive, sapendo con ciò di non far torto a nessuno degli eretici” che compaiono all’interno delle 160 pagine del suo libro.
Perché? perché l’eresia è avversa al pentitismo (di cui il conformismo è anticamera), come la musica lo è al silenzio o la montagna alla pianura. Perché i fascisti eretici issarono i vessilli di un super-fascismo che molto di rado sarebbe tornato “indietro”. «Le eresie volevano più fascismo», scrive Grisi, «più rivoluzione, più cambiamenti, più passione»; e perché scopo delle venticinque biografie compilate dall’autore è evidenziare l’importanza dei vissuti – di quelli “speciali” oltreché inimitabili – all’interno di quella grande avventura che fu la storia del fascismo e del suo capo indiscusso Benito Mussolini. Che è sempre protagonista, fino alla fine, e non solo delle poche pagine che l’autore dedica a lui quasi in conclusione.
Scorrendo i nomi in ordine alfabetico da Filippo Anfuso a Luigi Volpicelli (con due appendici Mussolini e Augusto del Noce), ci si accorge di due particolari. Una grossa fetta della storia d’Italia è passata dalle biografie di Grisi, e (seconda nota), codeste vite si intrecciano ripetutamente richiamandosi a vicenda, l’una all’altra, come si trattasse di nodi fondamentali delle vicende intellettuali italiane. Perfino un uomo come Julius Evola (che alcuni studiosi definiscono ancora un “isolato”), ebbe per esempio, negli anni Venti, un rapporto epistolare con pedine fondamentali del regime come per esempio Giovanni Gentile – ed essendosi formato nei primi anni del Novecento si considerò per certi versi “allevo” di Papini e per forza di cose di Marinetti, anche se alla lontana. Cominciamo tuttavia dal “numero uno”, dal duce allora, che fu scrittore di non poca importanza (efficacissimo giornalista), dotato com’era di uno stile molto personale sempre alla ricerca dell’aggettivo giusto, per raccontarla tutta e fino in fondo.
Il duce con le eresie ci andava a nozze (da socialista a interventista a fascista, tutto in poche mosse); è difficile capire però se il capo dei capi amasse anche la libertà – ai limiti della mossa infedele – di chi gli sedette a fianco per anni, come per esempio quella di Giuseppe Bottai un uomo al centro di discussioni e descrizioni sempre nuove. «Le definizioni che sono state date di questo uomo operoso e impegnato sono molte», scrive Grisi. «Tutte (con varianti diverse) convergono [tuttavia] sul fatto che Bottai rappresenta una linea critica nel Fascismo, una coscienza morale che non si ferma nelle formule, una intelligenza che mira a collegare attraverso la cultura il paese reale con il paese legale».
«Giuseppe Bottai è il fascista che crede nella libertà e che, in modo attento la esercita con il consenso di Benito Mussolini e di buona parte degli intellettuali e della stampa del tempo». È un gerarca che con la cultura ci va a nozze; ci crede a tal punto da farsene attento organizzatore con le riviste “Critica fascista” e “Primato”, due quindicinali sufficientemente noti – a fascisti e antifascisti e soprattutto il secondo – per ragioni che una manciata d’anni fa Mirella Serri spiegò in 370 pagine. “Critica” esce per un ventennio (1923-1943) e fra l’altro si fa portavoce del dibattito sul corporativismo con discorsi annessi e connessi… “Primato” invece esce per soli tre anni fino al ’43, ed è il “rifugio” degli antifascisti di chiara fama. Per la cultura italiana vista nel suo complesso è un periodico che funge da «luogo di transizione», un ponte gettato fra due periodi diversi per non dire, di fatto, “opposti”.
A Bottai fu vicino fra i molti anche Leo Longanesi, altro eretico e altro inafferrabile “figuro”, geniale tanto nella prima quanto nella seconda parte del secolo breve. Nel ’26 fonda “L’Italiano”, nel ’42 “Omnibus” (primo rotocalco italiano) e nel ’50 “Il Borghese”. E potrebbe bastare così. Buona parte dello stile del giornalismo attuale e non solo di “destra” (inflessibile ed elitario) è di derivazione longanesiana. Montanelli, per dirne uno, è il suo più illustre e “fedele” allievo. Per Grisi Longanesi è «la moralità dell’anarchia che si collega alla libertà». Non è nato vincente ma non è neanche un perdente. «Longanesi appartiene alla schiera degli spavaldi e degli ammazzasette di tutti i tempi. Uno di quei rari uomini che rimangano sempre all’opposizione in tutti i regimi. Scontento di Dio e del mondo. Pronto ad usare la spada in ogni torneo cavalcando un focoso cavallo con lo stesso ardimento dei capitani medioevali». Ma un altro che di anarchia se ne intendeva era stato Berto Ricci, ennesimo modello cui i “destri” attingono fino ai giorni nostri. «L’anarchia per lui era l’unica cultura e l’indispensabile etica per vivere oltre la cronaca…». Ricci è stato uno dei maestri “spirituali” del nostro Indro che conobbe nella Firenze di Bilenchi, Garrone, Pellizzi e degli altri. Partito volontario per la seconda guerra mondiale non vi farà ritorno svanendo nel Gebel libico, così ha scritto Enrico Nistri, «come i sogni di una generazione». Nella sua creatura “L’Universale” Ricci ebbe a scrivere: «Fondiamo questo foglio con volontà di agire sulla storia italiana. Contro la filosofia regnante, che fermamente avverseremo non ammettiamo che tutto sia “storia”: storia non è quel che passa, è quel che dura. Ripudiamo l’effimero e ce ne facciamo negatori». Fu un’autentica lezione durata tuttavia poche stagioni (1931-1935).
Altra lezione, altra biografia, quella di Giuseppe Prezzolini stavolta, il fondatore della “Voce”: la madre di tutte le riviste d’inizio secolo. Prezzolini rimase sempre con inarrivabile dignità a metà fra il rispetto e la critica anche caustica verso la politica del suo tempo. Visse da privilegiato, perché uomo di grande intelligenza. «Testimonia una stagione culturale contro le mode e il conformismo. Richiama la tradizione senza chiudersi in forme di schematismo dogmatico o nelle nostalgie. Prezzolini è un conservatore che rischia sull’avvenire», scrive Grisi. L’uomo che visse cent’anni, spiegò a tutti noi che si può vivere senza sorbirsi quello spiacevole intruglio che si chiama italianità. Da eretici insomma.

Marco Iacona